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Viaggio al Nord – Gino Anzivino sul volume ‘Alvar Aalto. The Mark of the Hand’
Il 29/06/2014
Il viaggio di studio degli architetti è uno dei temi centrali nelle relazioni tra l'Italia e i Paesi Nordici. Gino Anzivino, storico e critico dell'architettura, ci offre un raffinato e stimolante commento del volume 'The Mark of the Hand' curato da Harry Charrington e Vezio Nava.
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Aalto e i suoi, di Gino Anzivino
Harry Charrington e Vezio Nava (a cura di) Alvar Aalto. The Mark of the Hand, Helsinki, Rakennustieto, 2011 (pp. 427, € 47,00)
Da pensionato, accademicamente, mi sono chiesto se disponendo nell'inverno 1965-66 del libro curato da Harry Charrington e Vezio Nava avrei scelto la professione di architetto o di storico dell'architettura, una volta terminati gli studi universitari.
Matricola a Firenze, mentre Palazzo Strozzi ospitava la mostra dedicata ad Alvar Aalto (1898-1976), come prova pre-esame, mi fu assegnato il compito di imitare la grafia del maestro finlandese, con il solo supporto delle fotocopie del catalogo di
Leonardo Mosso. Grafia inconfondibile che a me risultò inimitabile.
Da alcune delle ventitré conversazioni raccolte fra i collaboratori dell'atelier di Aalto, che costituiscono una parte non trascurabile del libro curato dall'inglese Charrington e dall'italiano Nava, scopro invece che era proprio la grafia, il tratto comune a molti dei suoi aiuti. Suoi imitatori, forse, ma senza il kädenjälki, che “the mark of the hand”, nel titolo dell'opera, traduce solo in senso letterale.
Un episodio, tra i tanti del libro ricco di memorie legate a ben sessantaquattro progetti elaborati nei cinquant'anni di attività dello studio di Helsinki, esemplifica più plasticamente degli altri l'aura che rendeva unico il "tocco" del Maestro (come, in italiano, amava essere chiamato) rispetto alla “impronta della mano” dei collaboratori. Un addetto ai modelli, presentato ad Aalto il bozzetto in plastilina di una medaglia commemorativa – perfettamente circolare – se lo vide appena deformato dal suo pollice. "Ora va bene", fu il commento. Riaffermando, a un tempo, la sua autorità e la sua autorialità.
Nelle conversazioni fra colleghi pazientemente raccolte da Nava per più di un decennio e rese in inglese da Charrington, emerge fra l'altro che il processo d'identificazione degli "schiavi" – come ironizza una di loro – non si riduce all'imitazione dei comportamenti esteriori. Vestire parlare muoversi, e, soprattutto, disegnare proprio come il boss con numerose e sempre appuntite 6B su bianchissima e leggera carta Tervakoski (due fatti che ignoravo nell'inverno del mio scontento), non è scoraggiato ma è anzi promosso e perpetuato.
Dal 1955 al 1994 (anni di apertura e chiusura dello studio), nel candido atelier di Munkkiniemi, oggetto della puntuale e velatamente malinconica narrazione di Nava, e prima ancora nel vicino studio-abitazione degli Aalto dal 1944-55, i collaboratori di Aino, Alvar, poi dal 1976 della sola Elissa si attengono al metodo che gli stessi curatori, lavorando per Alvar ed Elissa in tempi e con durate differenti, hanno sperimentato.
Come ricorda Charrington nel suo saggio, frutto di una ricerca approfondita e finalmente assai ricca di elementi nuovi, 'rather than being instructed in the "atelier's method" new members would be expected to assimilate its kädenjälki from more senior members and through reference to the archive of atelier's works'. Proprio come gli studenti di Mies al Bauhaus e a Chicago, o gli apprendisti di Wright a Taliesin anche la brigata internazionale che per un cinquantennio ha presidiato l’atelier Aalto, si è formata secondo un tirocinio già invalso nell’Accademia: imparare copiando dal maestro.
A Munkkiniemi, distretto di Helsinki, persino la forma dello studio tornisce un anfiteatro esterno che converge sulla figura del primo attore-maestro-gran sacerdote. Né lo svolgersi dell'attività lavorativa è esente da una ritualità e da regole di una comunità monastica, dove agli appartenenti è prescritto un abito formale e vietato portare la barba. E dove soprattutto gli spazi di lavoro – nessuno, tuttavia, esclusivo del Maestro –, di riunione o di esposizione dei talvolta costosissimi modelli, la taverna o il giardino diventano lo scenario di perpetuazione di un mito. Mito che si era costruito e si andava costruendo grazie alla devozione dei suoi adepti ma anche alla fiducia che Aalto sapeva accordare: 'Remember, when I'm away, you're Alvar Aalto'. Salvo poi rifiutare soluzioni formali che gli erano estranee.
Diffidente del teamwork, termine con cui gli americani indicano l'azione combinata ed efficiente di un gruppo di esperti di pari livello, Aalto si pone piuttosto a capo indiscusso di un'orchestra ben amalgamata. Al cui direttore unico va tollerato – e diviene ricordo in tante conversazioni – il dispotismo o la volgarità, la millanteria o persino la crudeltà, soprattutto sotto gli effetti dell'alcol.
Ma qui non importa sapere se brinda alla morte di Le Corbusier perché così è divenuto "the best architect in the world", o conoscere altre miserie e grandezze dell'uomo Aalto. In fondo, molta della sua ipertrofica, ripetitiva e inutile bibliografia patinata si alimenta solo di questi episodi.
Ciò che questo libro su Alvar Aalto mette nella giusta luce non sono solo i personaggi, l'atmosfera dello studio, le condizioni di lavoro (ivi comprese le paghe sindacali) o l'ambiente dell'epoca, sullo sfondo di una considerevole messe di opere raramente oggetto di attenzione della storiografia aaltiana. Direi che per la prima volta, questo lavoro cerca di indagare le modalità di ideazione di un'opera (dagli schizzi, anche dei collaboratori – alcuni riprodotti nel libro –, agli esecutivi sempre studiati attraverso i modelli), e tenta di far emergere l'importanza e il ruolo talvolta determinante delle sue partner e del suo piccolo staff - per non parlare dell'alta specializzazione degli suoi artigiani - nei risultati raggiunti.
E da qui discende uno dei difficili e imprescindibili compiti della ricerca storica futura: separare il lavoro di Aalto da quello dei suoi collaboratori.
Dopo aver letto con molta curiosità e interesse il libro, che per la sua novità e importanza consiglio soprattutto agli studenti di architettura, mi è sorto un dubbio. Nel 1965-66, non avrò cercato di imitare gli schizzi dell'amico Vezio Nava invece che di Alvar Aalto? Accademicamente.
Gino Anzivino
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Aalto e i suoi, di Gino Anzivino
Harry Charrington e Vezio Nava (a cura di) Alvar Aalto. The Mark of the Hand, Helsinki, Rakennustieto, 2011 (pp. 427, € 47,00)
Da pensionato, accademicamente, mi sono chiesto se disponendo nell'inverno 1965-66 del libro curato da Harry Charrington e Vezio Nava avrei scelto la professione di architetto o di storico dell'architettura, una volta terminati gli studi universitari.
Matricola a Firenze, mentre Palazzo Strozzi ospitava la mostra dedicata ad Alvar Aalto (1898-1976), come prova pre-esame, mi fu assegnato il compito di imitare la grafia del maestro finlandese, con il solo supporto delle fotocopie del catalogo di
Leonardo Mosso. Grafia inconfondibile che a me risultò inimitabile.
Da alcune delle ventitré conversazioni raccolte fra i collaboratori dell'atelier di Aalto, che costituiscono una parte non trascurabile del libro curato dall'inglese Charrington e dall'italiano Nava, scopro invece che era proprio la grafia, il tratto comune a molti dei suoi aiuti. Suoi imitatori, forse, ma senza il kädenjälki, che “the mark of the hand”, nel titolo dell'opera, traduce solo in senso letterale.
Un episodio, tra i tanti del libro ricco di memorie legate a ben sessantaquattro progetti elaborati nei cinquant'anni di attività dello studio di Helsinki, esemplifica più plasticamente degli altri l'aura che rendeva unico il "tocco" del Maestro (come, in italiano, amava essere chiamato) rispetto alla “impronta della mano” dei collaboratori. Un addetto ai modelli, presentato ad Aalto il bozzetto in plastilina di una medaglia commemorativa – perfettamente circolare – se lo vide appena deformato dal suo pollice. "Ora va bene", fu il commento. Riaffermando, a un tempo, la sua autorità e la sua autorialità.
Nelle conversazioni fra colleghi pazientemente raccolte da Nava per più di un decennio e rese in inglese da Charrington, emerge fra l'altro che il processo d'identificazione degli "schiavi" – come ironizza una di loro – non si riduce all'imitazione dei comportamenti esteriori. Vestire parlare muoversi, e, soprattutto, disegnare proprio come il boss con numerose e sempre appuntite 6B su bianchissima e leggera carta Tervakoski (due fatti che ignoravo nell'inverno del mio scontento), non è scoraggiato ma è anzi promosso e perpetuato.
Dal 1955 al 1994 (anni di apertura e chiusura dello studio), nel candido atelier di Munkkiniemi, oggetto della puntuale e velatamente malinconica narrazione di Nava, e prima ancora nel vicino studio-abitazione degli Aalto dal 1944-55, i collaboratori di Aino, Alvar, poi dal 1976 della sola Elissa si attengono al metodo che gli stessi curatori, lavorando per Alvar ed Elissa in tempi e con durate differenti, hanno sperimentato.
Come ricorda Charrington nel suo saggio, frutto di una ricerca approfondita e finalmente assai ricca di elementi nuovi, 'rather than being instructed in the "atelier's method" new members would be expected to assimilate its kädenjälki from more senior members and through reference to the archive of atelier's works'. Proprio come gli studenti di Mies al Bauhaus e a Chicago, o gli apprendisti di Wright a Taliesin anche la brigata internazionale che per un cinquantennio ha presidiato l’atelier Aalto, si è formata secondo un tirocinio già invalso nell’Accademia: imparare copiando dal maestro.
A Munkkiniemi, distretto di Helsinki, persino la forma dello studio tornisce un anfiteatro esterno che converge sulla figura del primo attore-maestro-gran sacerdote. Né lo svolgersi dell'attività lavorativa è esente da una ritualità e da regole di una comunità monastica, dove agli appartenenti è prescritto un abito formale e vietato portare la barba. E dove soprattutto gli spazi di lavoro – nessuno, tuttavia, esclusivo del Maestro –, di riunione o di esposizione dei talvolta costosissimi modelli, la taverna o il giardino diventano lo scenario di perpetuazione di un mito. Mito che si era costruito e si andava costruendo grazie alla devozione dei suoi adepti ma anche alla fiducia che Aalto sapeva accordare: 'Remember, when I'm away, you're Alvar Aalto'. Salvo poi rifiutare soluzioni formali che gli erano estranee.
Diffidente del teamwork, termine con cui gli americani indicano l'azione combinata ed efficiente di un gruppo di esperti di pari livello, Aalto si pone piuttosto a capo indiscusso di un'orchestra ben amalgamata. Al cui direttore unico va tollerato – e diviene ricordo in tante conversazioni – il dispotismo o la volgarità, la millanteria o persino la crudeltà, soprattutto sotto gli effetti dell'alcol.
Ma qui non importa sapere se brinda alla morte di Le Corbusier perché così è divenuto "the best architect in the world", o conoscere altre miserie e grandezze dell'uomo Aalto. In fondo, molta della sua ipertrofica, ripetitiva e inutile bibliografia patinata si alimenta solo di questi episodi.
Ciò che questo libro su Alvar Aalto mette nella giusta luce non sono solo i personaggi, l'atmosfera dello studio, le condizioni di lavoro (ivi comprese le paghe sindacali) o l'ambiente dell'epoca, sullo sfondo di una considerevole messe di opere raramente oggetto di attenzione della storiografia aaltiana. Direi che per la prima volta, questo lavoro cerca di indagare le modalità di ideazione di un'opera (dagli schizzi, anche dei collaboratori – alcuni riprodotti nel libro –, agli esecutivi sempre studiati attraverso i modelli), e tenta di far emergere l'importanza e il ruolo talvolta determinante delle sue partner e del suo piccolo staff - per non parlare dell'alta specializzazione degli suoi artigiani - nei risultati raggiunti.
E da qui discende uno dei difficili e imprescindibili compiti della ricerca storica futura: separare il lavoro di Aalto da quello dei suoi collaboratori.
Dopo aver letto con molta curiosità e interesse il libro, che per la sua novità e importanza consiglio soprattutto agli studenti di architettura, mi è sorto un dubbio. Nel 1965-66, non avrò cercato di imitare gli schizzi dell'amico Vezio Nava invece che di Alvar Aalto? Accademicamente.
Gino Anzivino