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Sofi Oksanen, l’Estonia e le macerie del muro di Berlino



La cortina di ferro si sgretolò e io mi presi un cane

di Sofi Oksanen

Traduzione dal finlandese di Paola Brigaglia



Nel febbraio del 1989 mi trovavo nei corridoi del più bel grande magazzino di Mosca, il leggendario GUM, con un sacchetto pieno di rubli in mano. Solo fino a poco tempo prima cinque rubli sarebbero stati un bel gruzzoletto.

Adesso, invece, avevo un intero sacchetto di banconote di grosso taglio, ma non potevo usarli in alcun modo. Nel grande magazzino avevo trovato soltanto un cappello bianco con le falde di pizzo e dei busti di Lenin. Per il resto gli scaffali erano vuoti e i corridoi insolitamente deserti. Il GUM, costruito durante l’ultima decade dell’Ottocento, era diventato noto come paradiso degli acquisti dell’Unione Sovietica, l’unico posto in cui non c’era mai penuria di merci. Lì, da giovane, mia madre aveva comprato le sue scarpe più alla moda.



Nel novembre dello stesso anno cadde il muro di Berlino e la notizia fu comunicata anche alla televisione dell’Estonia Sovietica. Il permesso fu concesso grazie alla glasnost’, la politica di apertura guidata da Michail Gorbačëv. Anche la cortina di ferro estone aveva iniziato a incrinarsi. Nell’anno precedente, il Soviet Supremo della Repubblica Socialista Sovietica Estone aveva rilasciato una dichiarazione riguardante il diritto di autodeterminazione dell’Estonia. Era già un passo avanti. Tuttavia questa dichiarazione venne interpretata come volontà dei comunisti della perestrojka di legare il paese all’Unione Sovietica in un altro modo, come se si cercasse una via più accettabile per rimanervi dentro. Così ricordava Enn Soosaar, poliedrico esponente della cultura estone. L’intenzione era di non separarsene definitivamente. Nella dichiarazione si parlava soltanto di una Repubblica socialista dell’Estonia.



Ricordo di non aver prestato la minima attenzione alla cosa. Ma qualche mese prima della caduta del muro di Berlino, accadde invece qualcosa di significativo. Qualcosa per cui si capiva che il cambiamento era già tangibile. Mia nonna aveva cucito a mano una bandiera dell’Estonia e il giorno di San Giovanni del 1989 l’aveva attaccata a una parete di casa, in quella che ancora era la Repubblica Socialista Sovietica Estone. Scattammo una foto con la nostra macchina fotografica occidentale e ci commuovemmo tutti. In quell’ormai sbiadito ritratto di famiglia teniamo la bandiera in mezzo a noi. Mia cugina, che lavorava come sarta, era riuscita a procurarle la stoffa, che in giro scarseggiava. Solo fino a poco tempo prima la combinazione dei colori blu-nero-bianco era ancora molto pericolosa. L’artista estone Leonard Lapin era stato messo al bando per aver usato nelle sue opere astratte quei colori, che mandavano il popolo su di giri. E ora per la prima volta, vedevo con i miei occhi una bandiera dell’Estonia.



Le albicocche di Černobyl'



La metamorfosi che di lì a poco sfociò nella nuova indipendenza era già cominciata da tempo, negli anni della perestrojka, periodo in cui i nostri documenti necessari per viaggiare,continuavano a ottenere un rifiuto dopo l’altro. Per tre anni non ci fu mai accordato il permesso di andare a trovare i nostri parenti. Tuttavia, l’invito a Tallinn da parte di una nostra amica venne finalmente accettato, grazie alle motivazioni fornite da mia nonna. Da Tallinn, ci recammo poi dai nostri parenti di nascosto, così come avevamo fatto anche durante il viaggio, in cui avevamo scattato la foto con la bandiera. Evitando i trasporti pubblici e non avendo a disposizione auto private, per i nostri spostamenti clandestini ci servivamo di taxi e pagavamo in marchi finlandesi. In quegli anni, oltre ai soldi occidentali, c’era anche un’altra valuta che faceva funzionare la vita quotidiana: l’alcol. Il lievito scomparve subito dai negozi, nel momento in cui entrò in vigore la regolamentazione dell’alcol da parte di Gorbačëv, anche conosciuta come “la legge secca”.



Procurarsi il cibo era un’attività che richiedeva molto tempo, ma improvvisamente, dopo l’incidente nucleare di Černobyl' (1986), in Estonia cominciò ad arrivare una grande abbondanza di prodotti alimentari ucraini. Il cibo estone, intanto, veniva esportato in Ucraina. Subito dopo l’incidente, parecchi uomini furono mandati a lavorare nella centrale nucleare, senza che nemmeno sapessero dove erano diretti. Osservavo stupefatta i bambini estoni, mentre bevevano avidamente quelle prelibatezze così rare fino a poco prima: i succhi di frutta ucraini. Io li rifiutavo sistematicamente, ma il mio gesto non veniva capito. Sembrava una scortesia. Non toccavo nemmeno la pasta, anch’essa di provenienza ucraina. Nel momento in cui nei negozi comparvero le albicocche, con il loro profumo invitante, il significato della cortina di ferro si manifestò concretamente e questo mi torna in mente ogni volta che sento l’odore del succo di albicocca.



Fino a quel momento pensavo che, nonostante i decenni di continua e massiva propaganda, gli estoni fossero comunque al corrente di come stavano veramente le cose. Nessuno poteva credere alle menzogne raccontate dalla televisione sovietica. Ciononostante si lasciava che i bambini bevessero i succhi di frutta ucraini, mentre nelle farmacie la tintura di iodio era già terminata. Era proprio così la glasnost’ al di là della cortina di ferro. La perestrojka.



Dopo l’incidente di Černobyl' emersero dei conflitti a causa di alcuni progetti segreti riguardo alle miniere di fosforite del Virumaa, che diedero una forte spinta al nuovo processo di indipendenza. Grazie alla glasnost’ era ora possibile discutere più apertamente dei problemi ambientali. Questi progetti esistevano sin dal 1970 e quando la notizia divenne di pubblico dominio, l’amministrazione sovietica dell’Estonia venne aspramente criticata per averlo tenuto nascosto. La televisione estone venne invece accusata di aver scatenato la ribellione giovanile intervistando Juri Jampo, un funzionario del Ministero dell’industria dei fertilizzanti di Mosca, il quale aveva dichiarato che nelle miniere di fosforite sarebbero stati mandati oltre 20.000 lavoratori provenienti da altri paesi. In un momento in cui in Estonia c’era anche carenza di ciucci.



In seguito agli spostamenti di popolazione voluti da Stalin, il numero di abitanti dell’Estonia era cresciuto in modo eccessivo rispetto ai servizi del paese, la situazione abitativa era problematica e anche quella alimentare. Quegli spostamenti proseguirono nel tempo non soltanto per motivazioni economiche, ma anche politiche: si aveva l’intenzione di russificare i popoli. A Mosca non ci si preoccupava dei problemi pratici e si pretendeva che si continuassero a inviare latte e carne dall’Estonia a Leningrado e alla capitale stessa. Alla popolazione estone, in costante aumento, si lasciavano invece le code dei maiali, falde acquifere in pericolo e spiagge non idonee alla balneazione. Se lo svelamento dei progetti per le miniere di fosforite non portò subito a delle proteste nazionali generali, ne segnò comunque l’inizio. Ben presto si iniziò a esigere una gestione trasparente anche del patto Molotov-Ribbentrop, di cui in passato si sussurrava solo in segreto.



Verranno i carri armati?



Nel 1988, il Fronte Popolare Estone, organizzazione fondata come sostegno alla perestrojka, crebbe rapidamente e divenne un movimento popolare, grazie al quale si organizzavano concerti e canti collettivi a cui prendevano parte centinaia di migliaia di persone. Alla rivoluzione cantata si unì anche una parte dei cittadini di lingua russa. Alcuni tra questi, tuttavia, costituirono dei movimenti di protesta in sostegno dell’Unione Sovietica e durante le sommosse additavano gli estoni come fascisti, in quanto questi osavano rivendicare il diritto all’autodeterminazione ed esigere lo status di lingua ufficiale per l’estone.



Cinquant’anni dopo la stipulazione del patto Molotov-Ribbentrop, il 23 agosto 1989, due milioni di persone si unirono in una dimostrazione pacifica formando una catena umana: la catena baltica. Questa ottenne l’attenzione del mondo intero, ma neppure la Finlandia diede un aperto sostegno alle aspirazioni estoni all’indipendenza, appoggiando invece la perestrojka di Gorbačëv. Quella parola si udiva in continuazione, sia in Finlandia che in Estonia, dove avevamo mandato del satin bianco, perché la carenza di stoffa rendeva i funerali difficoltosi. Poiché in Estonia, durante i funerali, si usa lasciare la bara aperta, c’era bisogno di federe e di stoffa per i rivestimenti. Inviammo alla nonna anche una foto da passaporto, che poteva usare per la tessera annonaria. I pensionati avevano difficoltà a raggiungere i fotografi, che si trovavano solo nelle città, e senza la tessera annonaria non era più possibile avere cibo. Con la caduta del muro si passò dall’economia socialista all’economia delle tessere annonarie.



La valigia di mia nonna era sempre pronta. Per ogni evenienza teneva a portata di mano i documenti più importanti, i soldi, le fotografie e il passaporto. La fiducia degli estoni nei confronti delle riforme era scarsa e nei suoi discorsi Gorbačëv confondeva i paesi baltici tra loro. Non si credeva nell’aiuto dell’occidente. Quando la Lituania approvò la dichiarazione di indipendenza per prima, nel 1990, l’Unione Sovietica, la Germania e la Francia fecero pressione perché la ritirasse. Mosca adottò un embargo contro la Lituania. George Bush fece pressione sui paesi baltici perché non rovesciassero la barca.



In quella fase non seguivamo più le notizie in Finlandia. Compravamo i giornali, ma li accatastavamo su uno scaffale senza leggerli. Uno dei momenti più dolorosi di una famiglia emigrante è quando nell’altra propria patria è in atto una rivoluzione, che si può seguire solo a distanza e di cui non è possibile prevedere l’esito finale. Quanti morti ci sarebbero stati? Si sarebbe sentito il rombo dei carri armati e la cortina di ferro sarebbe venuta giù di nuovo?

Dopo il tentato colpo di stato di Mosca, tutti i paesi baltici si dichiararono indipendenti nel 1991. L’avanzata dei carri armati venne bloccata da scudi umani. Tra i paesi baltici, soltanto l’Estonia riuscì a cavarsela senza vittime. Fu un miracolo.



Improvvisamente la libertà



Ero già al liceo quando oltrepassai per la prima volta quel confine che era esistito fin da quando riuscivo a ricordare. Quando la città al di là di quel confine disegnato col righello crebbe, dall’altro lato emerse una zona vuota: l’area dell’esercito sovietico. Niente recinti, niente segnali, non ce n’era bisogno. Nessuno avrebbe comunque oltrepassato quel limite.



Le truppe sovietiche lasciarono l’Estonia vent’anni fa, il 31 settembre 1994, e a quell’epoca le ultime macerie del muro erano già state tolte. La seconda guerra mondiale in Estonia era terminata. Gli edifici abbandonati dai soldati erano in cattivo stato, le truppe avevano divelto tutto il possibile e venduto sia i cavi che le finestre. Alcuni vecchi casali furono bruciati. Ma l’esercito se n’era andato.



Il mio cagnolino, un bolonka estone, aveva allora già tre anni. Dall’Unione Sovietica non si potevano portare cani, ma dall’Estonia indipendente sì, e lo prendemmo subito, appena fu possibile. Volevo assolutamente un bolonka, un cane la cui razza era molto diffusa in Estonia, che in precedenza avevo avuto a casa solo sulla copertina di un calendario sovietico. Adesso invece il mio cane in carne e ossa viaggiava con noi dalla Finlandia all’Estonia e in giro per il mondo. Per di più in una macchina tutta mia. Senza tangenti. Senza la sorveglianza del KGB.

Prima dell’indipendenza, nella Repubblica Socialista Sovietica Estone, ero stata soltanto nelle città in cui avevamo avuto il permesso di andare, e in campagna da mia nonna, dove gli inviti ufficiali non sarebbero stati accettati.



Organizzare un viaggio significava un anno di lunghi preparativi. Il controllo del KGB durante i viaggi in Estonia era scontato, così come lo erano le intercettazioni telefoniche in entrambi i paesi. Gli estoni all’estero erano considerati sempre un fattore di rischio per l’Unione Sovietica.



Improvvisamente non c’era più nessuno che ci ritenesse dei nemici per il nostro stesso paese. Improvvisamente per viaggiare si aveva bisogno solo del visto e non si doveva più temere di non ottenerlo e improvvisamente il giardino estone di mia madre poté tornare a fiorire. Prima, quando eravamo in Finlandia, le sue coltivazioni dipendevano da qualche singola ghianda e dagli scadenti semi sovietici di contrabbando. Ora potevano finalmente crescere: susini, prugni, diverse specie di meli, castagni, peonie, bocche di leone. In realtà certe specie non andrebbero piantate così a nord, ma fiorirono ugualmente, tutte quante, ogni anno.



Foto: Toni Härkönen