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Kaisu Koivisto al Museo Andersen. La memoria semiotica dell’oggetto | Roma, fino al 19.1.2014
Il 19/11/2013
INTERSEZIONI/ INTERSECTIONS, la doppia personale ospitata al museo Hendrik Christian Andersen di Roma, a cura di Matilde Amaturo e Maria Giuseppina Di Monte, rimarrà aperta fino al 19 gennaio 2014.
L’“intersezionalità” su cui riflette la mostra si declina attraverso due dialoghi distinti: quello che avviene tra le due artiste esposte - l’italiana Claudia Peill (1963) e la finlandese Kaisu Koivisto (1962) - e il discorso che le loro opere intessono con gli spazi del museo.
Tra le opere di Kaisu Koivisto, Ghost (2009), pelliccia vera di un orso polare dalle fauci spalancate, è ciò che resta dell’animale accuratamente “apparecchiato” su di un tavolo, che non fa più spavento ma tenerezza. Bambience (2010) e Puppy 106 (2012) sono tra i molteplici animali-giocattolo che si incontrano tra le stanze del museo, realizzati con pelle e materiali riciclati, o delle volte ridotti alla sola struttura scheletrica in acciaio che conferisce loro un senso di fragilità e dolcezza estreme. E ancora, gli scatti fotografici della serie Bombé (2011-2012), che ritraggono i lasciti della Guerra Fredda in Lettonia: sono rudimenti oggi utilizzati come coloratissimi cestini per l’immondizia, ma nati per essere armi di distruzione di massa. Flood (2013), amorfo tappeto nero disteso per terra, realizzato dalla cucitura di vecchie giacche di pelle, importate da luoghi differenti e recanti ancora le etichette di provenienza, è un’opera che si fa inquietante metafora della globalizzazione del gusto e del comportamento.
Koivisto riflette sul controverso rapporto che intercorre tra la sfera umana e la sfera naturale, sulla fragile linea di demarcazione che ha permesso alla cultura di sconfinare ed imporsi, presuntuosa, sulla natura. Partendo da materiali che hanno un loro vissuto (pelle d’animale, ossa, fauci, oggetti riciclati) l’artista si fa carico di rimetterli in scena esasperando il loro trascorso. Così le opere esposte diventano tracce: esse recano il peso dello smisurato controllo che l’uomo ha assunto sulla natura, e si raccontano attraverso l’utilizzo che di loro è stato fatto.
Come ci insegna Fontanille, la valenza di queste tracce è totalmente circoscritta alla loro superficie di iscrizione, superficie che reca in sé la loro memoria semiotica. In tal senso, la pelliccia dell’orso polare non rappresenta più la ferocia dell’animale, bensì quella dell’uomo che lo ha domato; gli animali-giocattolo in pelle ritornano ad essere quello che erano prima di esser stati spogliati; i vivacissimi ruderi della Guerra Fredda rappresentano il potenziale distruttivo che è nell’uomo. Con maestria Koivisto riattiva questi oggetti, li presenta come contro-immagini, conferendo all’arte il ruolo di contro-potere, per citare Jean Baudrillard.
Federica Fierri
L’“intersezionalità” su cui riflette la mostra si declina attraverso due dialoghi distinti: quello che avviene tra le due artiste esposte - l’italiana Claudia Peill (1963) e la finlandese Kaisu Koivisto (1962) - e il discorso che le loro opere intessono con gli spazi del museo.
Tra le opere di Kaisu Koivisto, Ghost (2009), pelliccia vera di un orso polare dalle fauci spalancate, è ciò che resta dell’animale accuratamente “apparecchiato” su di un tavolo, che non fa più spavento ma tenerezza. Bambience (2010) e Puppy 106 (2012) sono tra i molteplici animali-giocattolo che si incontrano tra le stanze del museo, realizzati con pelle e materiali riciclati, o delle volte ridotti alla sola struttura scheletrica in acciaio che conferisce loro un senso di fragilità e dolcezza estreme. E ancora, gli scatti fotografici della serie Bombé (2011-2012), che ritraggono i lasciti della Guerra Fredda in Lettonia: sono rudimenti oggi utilizzati come coloratissimi cestini per l’immondizia, ma nati per essere armi di distruzione di massa. Flood (2013), amorfo tappeto nero disteso per terra, realizzato dalla cucitura di vecchie giacche di pelle, importate da luoghi differenti e recanti ancora le etichette di provenienza, è un’opera che si fa inquietante metafora della globalizzazione del gusto e del comportamento.
Koivisto riflette sul controverso rapporto che intercorre tra la sfera umana e la sfera naturale, sulla fragile linea di demarcazione che ha permesso alla cultura di sconfinare ed imporsi, presuntuosa, sulla natura. Partendo da materiali che hanno un loro vissuto (pelle d’animale, ossa, fauci, oggetti riciclati) l’artista si fa carico di rimetterli in scena esasperando il loro trascorso. Così le opere esposte diventano tracce: esse recano il peso dello smisurato controllo che l’uomo ha assunto sulla natura, e si raccontano attraverso l’utilizzo che di loro è stato fatto.
Come ci insegna Fontanille, la valenza di queste tracce è totalmente circoscritta alla loro superficie di iscrizione, superficie che reca in sé la loro memoria semiotica. In tal senso, la pelliccia dell’orso polare non rappresenta più la ferocia dell’animale, bensì quella dell’uomo che lo ha domato; gli animali-giocattolo in pelle ritornano ad essere quello che erano prima di esser stati spogliati; i vivacissimi ruderi della Guerra Fredda rappresentano il potenziale distruttivo che è nell’uomo. Con maestria Koivisto riattiva questi oggetti, li presenta come contro-immagini, conferendo all’arte il ruolo di contro-potere, per citare Jean Baudrillard.
Federica Fierri