« Indietro
"In Finlandia sono numerosissimi i luoghi dove ammirare le opere di Tove Jansson. Se però volete comprendere veramente la visione e unica del mondo di Tove, la meta principale è il luogo da lei più amato: le isole Pellinge, dove l’artista ha speso sin da piccola la maggior parte delle sue estati. Durante la sua permanenza Tove ha anche costruito una piccola capanna in una piccola isola lontana – Klovharun – sorgente d’ispirazione per lei e la sua partner Tuulikki per oltre tre decenni".
Il racconto di Tove Jansson che vi proponiamo si intitola L'isola e come scrive Hernan Diaz su the Paris Review, fu originariamente pubblicato nel 1961 in una rivista di viaggi, Turistliv i Finland. Può essere interpretato sia come un racconto, un saggio o una poesia in prosa.
La traduzione dall'inglese è di Alice Flinta.
L'isola
di Tove Jansson
Esiste un numero sorprendentemente alto di persone che se ne va in giro fantasticando su di un’isola.
Può succedere che i più premurosi cerchino la propria isola e la conquistino, ma a volte il sogno dell’isola rimane solamente un simbolo passivo per ciò che si trova ad un passo dal raggiungibile. L’isola – finalmente la riservatezza, la lontananza, l’intimità, una totalità circolare senza ponti ne recinzioni.
Protetta ed isolata dall’acqua che allo stesso tempo è una via di fuga.
Un’alternativa che non considera mai nessuno.
Camminare lungo la spiaggia della propria isola ha qualcosa della soddisfacente finalità del cerchio.
La spiaggia – lo stretto confine tra terra e mare, mutevole ed insidiosa, modellata da sconsiderata violenza, disseminata di oggetti bizzarri che il mare ha levigato dandogli delicatezza e forza.
Non c’è nulla di tanto rosso quanto un banco di alghe illuminate in controluce nel pomeriggio. Pietre morbide ed erba ispida.
Sassoso, frantumato caos – terreni sabbiosi inaspettatamente morbidi e gli indisturbati paesaggi in miniatura, riflessi nel nero dei bacini.
Vista dal mare, l’isola è di un colore triste, protettivo; è piccola e indifferente. Di sassi, per la maggior parte, con un ciuffo di alberi storti. Senza montagne e senza molo.
Dopo il tramonto diventa una silhouette nera, una trascurabile macchiolina nello spettacolo del cobalto delicato, del giallo Napoli e del blu ceruleo. L’orizzonte svanisce e papere ed anatre sfiorano la superficie dell’acqua, sorvolando il mare in file silenziose e ordinate. I gabbiani si sono ritirati per la notte e siedono immobili sugli isolotti intorno con le loro teste volte tutte nella stessa direzione.
Si vaga per l’isola. Nessuno può arrivare, nessuno ha bisogno di spostarsi, si è completamente tranquilli. Gli orologi si sono fermati da tempo, ed è tanto che non si indossano più scarpe. I piedi si fanno strada da soli, si muovono sicuri ed autosufficienti, sono diventati sensibili come le mani e percepiscono rapidi e gioiosi la sabbia e il muschio, le alghe, la montagna. I vestiti sono morbidi e leggeri, scoloriti da tanto tempo, come i propri capelli – sembrano giunchi e non sbattono mai in faccia.
Tutto quel che riguarda se stessi è stato uniformato, neutralizzato, privato di alcun particolare interesse. Si è compagni di sé stessi, si è qualcuno che parla raramente e non fa domande - una persona con la quale si può vivere.
Viene tutto rovesciato all’esterno nella calma contemplazione delle cose familiari cui trasformazioni ininterrotte creano un’incredibile sensazione di comfort e suspense.
Il mare mutevole, la spiaggia che sale e affonda e cambia forma, tutto ciò che cresce e muore e nasce ancora in un nuovo, sorprendente luogo; il modo in cui gli alberi e gli arbusti sopportano la tempesta; il degrado prende il suo corso naturale su tutto ciò che è stato costruito. E il piacere di riconoscere e del ripetersi.
Stando da soli per lungo tempo si inizia ad ascoltare in modo diverso, a percepire il naturale e l’inaspettato tutt’intorno, a sfiorare tutta l’incomprensibile bellezza della materia.
I vecchi egocentrici pensieri corrono alla ricerca di nuove strade o si rimpiccioliscono e muoiono. I sogni diventano più semplici e ci si sveglia con il sorriso.
È un equilibrio fragile: si paga con la paura del buio e con il panico improvviso – un’agitazione nell’oscurità, una barca all’orizzonte.
Durante la settimana però, presi dalle faccende domestiche ripetute con calma, la barriera protettiva cresce più alta e più stabile: tira la barca a riva prima della tempesta, accendi la lampada per la notte, raccogli e taglia la legna.
I problemi sono semplici e risolvibili.
L’acqua finisce. Il tetto ha una perdita. Un albero sta per essere spazzato via. Un fagiano ha frantumato la finestra. Un nido è scomparso.
L’inizio della primavera è il periodo più sicuro - verde, soddisfatta e amichevole - un margine ben inscritto tra l’agitazione della città e l’estate consumata. Non ci sono barche che vanno e vengono tra le isole, la sabbia è intatta e l’isola ha mosso un furtivo passo felpato verso il selvaggio.
I suoi colori sono freddi e profondi, fragili come il ghiaccio dei bacini. Il cielo imperturbabile è fatto di vetro. È tutto trepidante, vigile e completamente svuotato della civetteria estiva.
Di notte, da un’isola lontana, provengono le grida delle papere dalle code lunghe. Si possono sentire quando ci si sveglia per accendere il fuoco prima dell’alba. Sulla soglia della porta, nel gelo ma estremamente felici, ci si ferma a guardare il paesaggio scarno e le montagne nel crepuscolo.
Ciò che si era imbiancato ed era morto un anno fa rimane come un telo marrone steso su tutto ciò che ora ha deciso di iniziare a crescere.
Il pensiero ormai dimenticato della vita come un regalo diventa improvvisamente pensabile. Il fuoco brucia nella stufa. Ci si accoccola per dormire e si riconosce il silenzio e si fa amicizia con sé stessi.
La felicità si trova nel sollevare pietre pesanti, nel tirare un tronco fuori dall’acqua con una leva e le tecniche di bilanciamento, nel manovrare la barca mentre forti raffiche di vento soffiano da sud-ovest.
L’acqua è fredda come il ghiaccio e il suolo è duro e la luce diventa più luminosa ogni giorno; il paradiso è a portata di mano. Ed ogni anno ci si dimentica che la felicità sta nell’attesa, non nel compimento.
L’estate mantiene la sua promessa e se ne va.
Settembre sfuma in ottobre e l’isola diventa impassibile e indifferente di nuovo. Le ultime barche da pesca salpano nella notte e svaniscono nell’oceano con tutte le luci.
C’è un nuovo silenzio senza uccelli. I colori diventano pesanti e l’isola è calpestata e stanca. Prende un aspetto affascinantemente ostile.
La paura dell’oscurità spinge fuori dal cottage dalle finestre nere, nel piccolo capanno con le reti in fondo. Uno spazio solido e sicuro che non consegnerebbe mai nessuno al pericolo.
Il pericolo arriva con le tempeste d’autunno. Tempeste vere che non cesseranno al tramonto, che possono tagliar fuori l’isola fino a dieci giorni, che trasforma le spiagge e sbatacchia il cottage.
E tutti i suoni, propri delle tempeste, più forti nella stanza ma percettibili anche nel capanno durante il quarto giorno di tormenta; frammenti tonali rotti come musica di elettroni, voci che ridono e ululii e orologi lontani, il suono di piedi che corrono pesanti per casa.
Non ha importanza finché tutti gli specchi vengano girati verso il muro in tempo e i lenzuoli vengano affissi alle finestre.
Quando il sole è tramontato e tutto ciò che è viola e fastidioso ha inondato l’isola è tempo di convincersi che nulla potrà mai crollare nel capannone. Non possono esserci crepe lì.
Comunque la lampada deve essere riempita ogni sera, non deve mai spegnersi. Non ci si può permettere di aver paura in ottobre. Paura di aver paura.
Non delle persone, ma di ciò che sembra umano e non lo è.
La mattina è trasparente e soporifera.
Nuovi cumoli di alghe si accatastano sulla spiaggia sottovento. L‘isola si secca e si restringe e cerca di liberarsi di noi.
È tutto esaurito, ammuffito, consumato. Ciò che il mare trasporta non rimarrà nella risacca crescente, ma continuerà a viaggiare impaziente; il suolo è spogliato dai venti e la spuma della spiaggia percorre tutto il tragitto fino alle finestre, oscurandole.
L’acqua si alza.
Tutto ciò che si è costruito ed accumulato dev’essere trasportato più su. Ogni giorno più su. È come se il paradiso stesse per sprofondare nel mare. E si prova un misterioso desiderio di seguirlo.
Tutt’intorno, le cose si espongono alla morte e alla strenua sopravvivenza.
Un giorno, appena prima del tramonto una cortina di pioggia scende sul mare. Per poche ore i colori recuperano la loro lucidità e la loro vividezza: il paesaggio si ricompone e diventa sensuale.
Poi si incurva, il terreno non è più vivo, solamente rigonfio, e si leva a ondate come il mare. Porte e finestre non si possono aprire e tutto quel che era meravigliosamente marrone e sfiorito diventa un ammasso umido; l’isola è morta ma la sua gloriosa sepoltura è ancora lontana.
Gli ultimi uccelli estivi e i tipi da città se ne vanno. Volano via inorriditi.
Io me ne sono andata quando si è fermato il vento, la notte in cui la tempesta smise improvvisamente.
Avevo finito le scorte di cibo e legna e il vento soffiava.
L’ultimo giorno mi sdraiai a terra e distinguevo le figure negli intrecci del legno del soffitto. Le mie valigie già chiuse erano rimaste vicino alla porta per una settimana e la stanza era vuota e senza tende.
Poi un vortice nero e rapido ha avvolto le finestre - uno stormo di uccelli dalle ali lunghe ha volato intorno al cottage sfiorandone le mura. Ancora e ancora e ancora.
Nell’evidente follia della solitudine ero convinta che catastrofici animali a me sconosciuti stessero disegnando cerchi di sventura attorno alla casa.
Quella notte il vento smise di soffiare. Il silenzio mi svegliò.
Dato che ormai la casa era assediata dalla catastrofe, mi dimenticai della paura dell’oscurità, spalancai la porta e corsi fuori. Corsi ed inciampai (l’isola la notte era un’isola sconosciuta) lanciai le valigie nella barca mentre su nel cottage la lampada ancora ardeva, sola nella montagna, molto più flebile del faro che splendeva sicuro all’orizzonte. Chiuso il cottage a chiave, girato e rigirato la chiave che non era stata necessaria per tanto tempo e si rifiutava di funzionare, la lampada trasformava il cespuglio di ginepro in creature spaventose e fuori in mare un nuovo vento iniziò a soffiare.
Ho corso verso la spiaggia, inciampato e corso, ho sentito come l’isola mi odiava e voleva liberarsi di me. Ho provato a tirar fuori la barca sovraccarica, piansi e maledissi e continuai a spingere e poi era fuori con i remi a terra, l’oscurità in mare non era pericolosa e si veniva assaliti dalla vergogna.
Maledetta estate, ho pensato. Credi di amare la tua isola, ma non ci hai mai passato un inverno insieme. Tu uccello estivo, tipo da spiaggia, parassita di una solitudine meramente conveniente, tu che giochi con il primitivo e il pittoresco, tu vile abitante della città.
Qui tutto è diventato nero. Al largo il nuovo vento è cresciuto più forte. Lo sentii arrivare. Arrivò come camminando sull’acqua, senza che l’acqua ne venisse nemmeno sfiorata.
Ho remato per istinto, da qualche parte c’era terra ferma, sicura, con case dormienti e più lontano la città illuminata. La città dove vivevo, dove appartenevo, dove passavo gli inverni.
Nel mezzo della traversata smisi improvvisamente di remare.
E per la prima volta quell’inverno, durante la mia fuga, l’isola iniziò a mancarmi in maniera incontrollabile.
Tove Jansson's "The Island", the Paris Review
Photo: L'isola di Klovharun © Moomin Characters™
L’isola di Tove Jansson
Il 23/01/2020
"In Finlandia sono numerosissimi i luoghi dove ammirare le opere di Tove Jansson. Se però volete comprendere veramente la visione e unica del mondo di Tove, la meta principale è il luogo da lei più amato: le isole Pellinge, dove l’artista ha speso sin da piccola la maggior parte delle sue estati. Durante la sua permanenza Tove ha anche costruito una piccola capanna in una piccola isola lontana – Klovharun – sorgente d’ispirazione per lei e la sua partner Tuulikki per oltre tre decenni".
Il racconto di Tove Jansson che vi proponiamo si intitola L'isola e come scrive Hernan Diaz su the Paris Review, fu originariamente pubblicato nel 1961 in una rivista di viaggi, Turistliv i Finland. Può essere interpretato sia come un racconto, un saggio o una poesia in prosa.
La traduzione dall'inglese è di Alice Flinta.
L'isola
di Tove Jansson
Esiste un numero sorprendentemente alto di persone che se ne va in giro fantasticando su di un’isola.
Può succedere che i più premurosi cerchino la propria isola e la conquistino, ma a volte il sogno dell’isola rimane solamente un simbolo passivo per ciò che si trova ad un passo dal raggiungibile. L’isola – finalmente la riservatezza, la lontananza, l’intimità, una totalità circolare senza ponti ne recinzioni.
Protetta ed isolata dall’acqua che allo stesso tempo è una via di fuga.
Un’alternativa che non considera mai nessuno.
Camminare lungo la spiaggia della propria isola ha qualcosa della soddisfacente finalità del cerchio.
La spiaggia – lo stretto confine tra terra e mare, mutevole ed insidiosa, modellata da sconsiderata violenza, disseminata di oggetti bizzarri che il mare ha levigato dandogli delicatezza e forza.
Non c’è nulla di tanto rosso quanto un banco di alghe illuminate in controluce nel pomeriggio. Pietre morbide ed erba ispida.
Sassoso, frantumato caos – terreni sabbiosi inaspettatamente morbidi e gli indisturbati paesaggi in miniatura, riflessi nel nero dei bacini.
Vista dal mare, l’isola è di un colore triste, protettivo; è piccola e indifferente. Di sassi, per la maggior parte, con un ciuffo di alberi storti. Senza montagne e senza molo.
Dopo il tramonto diventa una silhouette nera, una trascurabile macchiolina nello spettacolo del cobalto delicato, del giallo Napoli e del blu ceruleo. L’orizzonte svanisce e papere ed anatre sfiorano la superficie dell’acqua, sorvolando il mare in file silenziose e ordinate. I gabbiani si sono ritirati per la notte e siedono immobili sugli isolotti intorno con le loro teste volte tutte nella stessa direzione.
Si vaga per l’isola. Nessuno può arrivare, nessuno ha bisogno di spostarsi, si è completamente tranquilli. Gli orologi si sono fermati da tempo, ed è tanto che non si indossano più scarpe. I piedi si fanno strada da soli, si muovono sicuri ed autosufficienti, sono diventati sensibili come le mani e percepiscono rapidi e gioiosi la sabbia e il muschio, le alghe, la montagna. I vestiti sono morbidi e leggeri, scoloriti da tanto tempo, come i propri capelli – sembrano giunchi e non sbattono mai in faccia.
Tutto quel che riguarda se stessi è stato uniformato, neutralizzato, privato di alcun particolare interesse. Si è compagni di sé stessi, si è qualcuno che parla raramente e non fa domande - una persona con la quale si può vivere.
Viene tutto rovesciato all’esterno nella calma contemplazione delle cose familiari cui trasformazioni ininterrotte creano un’incredibile sensazione di comfort e suspense.
Il mare mutevole, la spiaggia che sale e affonda e cambia forma, tutto ciò che cresce e muore e nasce ancora in un nuovo, sorprendente luogo; il modo in cui gli alberi e gli arbusti sopportano la tempesta; il degrado prende il suo corso naturale su tutto ciò che è stato costruito. E il piacere di riconoscere e del ripetersi.
Stando da soli per lungo tempo si inizia ad ascoltare in modo diverso, a percepire il naturale e l’inaspettato tutt’intorno, a sfiorare tutta l’incomprensibile bellezza della materia.
I vecchi egocentrici pensieri corrono alla ricerca di nuove strade o si rimpiccioliscono e muoiono. I sogni diventano più semplici e ci si sveglia con il sorriso.
È un equilibrio fragile: si paga con la paura del buio e con il panico improvviso – un’agitazione nell’oscurità, una barca all’orizzonte.
Durante la settimana però, presi dalle faccende domestiche ripetute con calma, la barriera protettiva cresce più alta e più stabile: tira la barca a riva prima della tempesta, accendi la lampada per la notte, raccogli e taglia la legna.
I problemi sono semplici e risolvibili.
L’acqua finisce. Il tetto ha una perdita. Un albero sta per essere spazzato via. Un fagiano ha frantumato la finestra. Un nido è scomparso.
L’inizio della primavera è il periodo più sicuro - verde, soddisfatta e amichevole - un margine ben inscritto tra l’agitazione della città e l’estate consumata. Non ci sono barche che vanno e vengono tra le isole, la sabbia è intatta e l’isola ha mosso un furtivo passo felpato verso il selvaggio.
I suoi colori sono freddi e profondi, fragili come il ghiaccio dei bacini. Il cielo imperturbabile è fatto di vetro. È tutto trepidante, vigile e completamente svuotato della civetteria estiva.
Di notte, da un’isola lontana, provengono le grida delle papere dalle code lunghe. Si possono sentire quando ci si sveglia per accendere il fuoco prima dell’alba. Sulla soglia della porta, nel gelo ma estremamente felici, ci si ferma a guardare il paesaggio scarno e le montagne nel crepuscolo.
Ciò che si era imbiancato ed era morto un anno fa rimane come un telo marrone steso su tutto ciò che ora ha deciso di iniziare a crescere.
Il pensiero ormai dimenticato della vita come un regalo diventa improvvisamente pensabile. Il fuoco brucia nella stufa. Ci si accoccola per dormire e si riconosce il silenzio e si fa amicizia con sé stessi.
La felicità si trova nel sollevare pietre pesanti, nel tirare un tronco fuori dall’acqua con una leva e le tecniche di bilanciamento, nel manovrare la barca mentre forti raffiche di vento soffiano da sud-ovest.
L’acqua è fredda come il ghiaccio e il suolo è duro e la luce diventa più luminosa ogni giorno; il paradiso è a portata di mano. Ed ogni anno ci si dimentica che la felicità sta nell’attesa, non nel compimento.
L’estate mantiene la sua promessa e se ne va.
Settembre sfuma in ottobre e l’isola diventa impassibile e indifferente di nuovo. Le ultime barche da pesca salpano nella notte e svaniscono nell’oceano con tutte le luci.
C’è un nuovo silenzio senza uccelli. I colori diventano pesanti e l’isola è calpestata e stanca. Prende un aspetto affascinantemente ostile.
La paura dell’oscurità spinge fuori dal cottage dalle finestre nere, nel piccolo capanno con le reti in fondo. Uno spazio solido e sicuro che non consegnerebbe mai nessuno al pericolo.
Il pericolo arriva con le tempeste d’autunno. Tempeste vere che non cesseranno al tramonto, che possono tagliar fuori l’isola fino a dieci giorni, che trasforma le spiagge e sbatacchia il cottage.
E tutti i suoni, propri delle tempeste, più forti nella stanza ma percettibili anche nel capanno durante il quarto giorno di tormenta; frammenti tonali rotti come musica di elettroni, voci che ridono e ululii e orologi lontani, il suono di piedi che corrono pesanti per casa.
Non ha importanza finché tutti gli specchi vengano girati verso il muro in tempo e i lenzuoli vengano affissi alle finestre.
Quando il sole è tramontato e tutto ciò che è viola e fastidioso ha inondato l’isola è tempo di convincersi che nulla potrà mai crollare nel capannone. Non possono esserci crepe lì.
Comunque la lampada deve essere riempita ogni sera, non deve mai spegnersi. Non ci si può permettere di aver paura in ottobre. Paura di aver paura.
Non delle persone, ma di ciò che sembra umano e non lo è.
La mattina è trasparente e soporifera.
Nuovi cumoli di alghe si accatastano sulla spiaggia sottovento. L‘isola si secca e si restringe e cerca di liberarsi di noi.
È tutto esaurito, ammuffito, consumato. Ciò che il mare trasporta non rimarrà nella risacca crescente, ma continuerà a viaggiare impaziente; il suolo è spogliato dai venti e la spuma della spiaggia percorre tutto il tragitto fino alle finestre, oscurandole.
L’acqua si alza.
Tutto ciò che si è costruito ed accumulato dev’essere trasportato più su. Ogni giorno più su. È come se il paradiso stesse per sprofondare nel mare. E si prova un misterioso desiderio di seguirlo.
Tutt’intorno, le cose si espongono alla morte e alla strenua sopravvivenza.
Un giorno, appena prima del tramonto una cortina di pioggia scende sul mare. Per poche ore i colori recuperano la loro lucidità e la loro vividezza: il paesaggio si ricompone e diventa sensuale.
Poi si incurva, il terreno non è più vivo, solamente rigonfio, e si leva a ondate come il mare. Porte e finestre non si possono aprire e tutto quel che era meravigliosamente marrone e sfiorito diventa un ammasso umido; l’isola è morta ma la sua gloriosa sepoltura è ancora lontana.
Gli ultimi uccelli estivi e i tipi da città se ne vanno. Volano via inorriditi.
Io me ne sono andata quando si è fermato il vento, la notte in cui la tempesta smise improvvisamente.
Avevo finito le scorte di cibo e legna e il vento soffiava.
L’ultimo giorno mi sdraiai a terra e distinguevo le figure negli intrecci del legno del soffitto. Le mie valigie già chiuse erano rimaste vicino alla porta per una settimana e la stanza era vuota e senza tende.
Poi un vortice nero e rapido ha avvolto le finestre - uno stormo di uccelli dalle ali lunghe ha volato intorno al cottage sfiorandone le mura. Ancora e ancora e ancora.
Nell’evidente follia della solitudine ero convinta che catastrofici animali a me sconosciuti stessero disegnando cerchi di sventura attorno alla casa.
Quella notte il vento smise di soffiare. Il silenzio mi svegliò.
Dato che ormai la casa era assediata dalla catastrofe, mi dimenticai della paura dell’oscurità, spalancai la porta e corsi fuori. Corsi ed inciampai (l’isola la notte era un’isola sconosciuta) lanciai le valigie nella barca mentre su nel cottage la lampada ancora ardeva, sola nella montagna, molto più flebile del faro che splendeva sicuro all’orizzonte. Chiuso il cottage a chiave, girato e rigirato la chiave che non era stata necessaria per tanto tempo e si rifiutava di funzionare, la lampada trasformava il cespuglio di ginepro in creature spaventose e fuori in mare un nuovo vento iniziò a soffiare.
Ho corso verso la spiaggia, inciampato e corso, ho sentito come l’isola mi odiava e voleva liberarsi di me. Ho provato a tirar fuori la barca sovraccarica, piansi e maledissi e continuai a spingere e poi era fuori con i remi a terra, l’oscurità in mare non era pericolosa e si veniva assaliti dalla vergogna.
Maledetta estate, ho pensato. Credi di amare la tua isola, ma non ci hai mai passato un inverno insieme. Tu uccello estivo, tipo da spiaggia, parassita di una solitudine meramente conveniente, tu che giochi con il primitivo e il pittoresco, tu vile abitante della città.
Qui tutto è diventato nero. Al largo il nuovo vento è cresciuto più forte. Lo sentii arrivare. Arrivò come camminando sull’acqua, senza che l’acqua ne venisse nemmeno sfiorata.
Ho remato per istinto, da qualche parte c’era terra ferma, sicura, con case dormienti e più lontano la città illuminata. La città dove vivevo, dove appartenevo, dove passavo gli inverni.
Nel mezzo della traversata smisi improvvisamente di remare.
E per la prima volta quell’inverno, durante la mia fuga, l’isola iniziò a mancarmi in maniera incontrollabile.
Tove Jansson's "The Island", the Paris Review
Photo: L'isola di Klovharun © Moomin Characters™